È più facile adattarsi che ribellarsi nell’età dell’oro di Donald Trump. Ciononostante, mentre i potenti del pianeta inviano a Washington missioni commerciali volte a mitigare le conseguenze della guerra sui dazi, ecco che Alan Garber sceglie una strada diversa, quella della fermezza. Garber è un pacato professore di economia e politica sanitaria chiamato sulla soglia dei settant’anni ad assumere la presidenza di Harvard, nell’opinione di molti la più prestigiosa oltre che la più ricca università privata del mondo. La nomina non è un premio alla carriera, ma la risposta ad un’emergenza. Si trattava di sostituire Claudine Gay, costretta alle dimissioni dagli organi di governo dell’università dopo aver fornito ad una commissione congressuale risposte sgradite sullo spinoso tema dell’antisemitismo nei campus. Non torneremo qui sull’episodio, affrontato da Lib- nel numero 16 del gennaio 2024, cui si rimanda il lettore. Esperto, moderato e non da ultimo di religione ebraica, Garber sembrava il candidato ideale per gestire con integrità ed empatia la complessità dei tempi. Tutto rimane sotto controllo fino al 14 aprile 2025, giorno in cui, nel suo ufficio al secondo piano dell’elegante edificio in stile georgiano che prende il nome di Massachusetts Hall, Garber riceve una lettera a firma di tre ministeri federali: Educazione, Sanità e Servizi generali. Un po’ forse se la aspettava, se non altro perché Harvard già compariva nella lista delle sessanta università americane sgradite a Washington. Questa volta il contenuto non è una tirata di orecchie, ma un diktat. Il Governo non è soddisfatto della conduzione di Harvard e ne vuole cambiare le regole. Bisognerà porre fine ai programmi di diversità, equità and inclusione noti con l’acronimo “DEI”. Inoltre, le procedure di assunzione degli insegnanti e di ammissione degli studenti andranno modificate e l’accesso agli studenti non americani limitato. L’antisemitismo sarà combattuto con tolleranza zero, una formula equivoca per indicare che ogni movimento pro-Palestina andrà espulso dal campus. Il Governo ha la potestà giuridica di formulare queste richieste? Certamente no, Harvard è un’istituzione privata. Allora ecco arrivare il ricatto, la chiusura del rubinetto dei fondi federali. Cosa fare, obbedire e salvare i nove miliardi in programmi pluriennali attualmente finanziati dal settore pubblico? Non è questa l’opinione di Alan Garber che, presa carta e penna, invia una lettera aperta alla comunità di Harvard in cui spiega con parole inequivocabili il proprio rifiuto di sottomettersi: “Accettando le richieste del Governo vedremmo minacciati i valori di istituzione privata che persegue, produce e dissemina conoscenza”. Full stop.
Spina dorsale o barzelletta?
Cosa pensare? Le parole dell’Harvard Crimsom, giornale interamente edito e gestito dagli studenti del campus, non lasciano spazio ad interpretazioni. “Nel rispondere ad un tentativo di estorsione da parte dell’amministrazione federale, la nostra università ha mandato il messaggio più chiaro e coraggioso della sua storia: i nostri valori non sono in vendita”. “Finalmente qualcuno in America mostra di avere la spina dorsale”, continuerà Shirley Leung sul prestigioso Boston Globe. “Non è sotto attacco l’accademia, ma la libertà” è il commento alla BBC di Cornell W. Brooks, professore nel dipartimento di “Government and public policy” dell’università. Nei fatti, nelle ventiquattro ore successive alla diffusione della lettera le donazioni on line ad Harvard saranno ben tremila e ottocento. Ma non tutti la pensano allo stesso modo, c’è chi non condivide lo spirito marcatamente liberale dell’istituzione bostoniana. I contrari sono galvanizzati dalle bordate provenienti da Washington e dai network più conservatori. “La leadership priva di coraggio di Harvard si piega all’antisemitismo, provoca rivolte e minaccia la sicurezza nazionale” dichiara Kristi Noem, Segretaria per la Sicurezza Interna. “Harvard è una barzelletta, insegna odio e stupidità, non merita di ricevere fondi federali”, ecco il post di Donald Trump sulla piattaforma “Truth Social” da lui stesso posseduta. Ma a destra c’è chi nutre dei dubbi. Se la National Review ritiene che le politiche di Harvard necessitino di azioni correttive da parte delle autorità federali, non la pensa così il Wall Street Journal che, pur manifestando poca simpatia per quell’ambiente snob che definisce “Cambridge crowd”, scrive che nessuna università che si rispetti potrà mai accettare di farsi gestire dal Governo.
Le divisioni nella società americana pesano sulla percezione della educazione superiore
I diplomi di Associate, Bachelor, Master e Doctoral in cui si articola l’educazione superiore americana sono conseguibili in circa quattromila istituti fra pubblici e privati, che ogni anno offrono corsi seguiti da venti milioni di studenti. Un movimento culturale impressionante, ma disomogeneo fra gli istituti leader e tutti gli altri. È in ogni caso opinione generale che il sistema raggiunga livelli eccellenti in termini di qualità dell’insegnamento, libertà accademica e pluralità di pensiero, ricerca e innovazione, capacità di attrarre talento su base globale. Nessuna sorpresa, dunque, che le università della Ivy League, di cui Harvard, Penn e Yale fanno parte, brillino per reputazione e posizionamento di vertice nelle graduatorie internazionali. Il merito va attribuito alla lungimiranza dei trustee che le guidano ma anche all’azione del Governo federale, che ogni anno inietta nel sistema sessanta miliardi di dollari di fondi per la ricerca. Le complessità non mancano: l’ammissione è selettiva in modo talora crudele, le tuition non sono alla portata dell’americano medio e di conseguenza causano disomogeneità sociale. Per tentare di porre rimedio, ecco un articolato modello di scholarship e di student loans. Fra gli altri ne hanno beneficiato Barack Obama ed Elon Musk, diplomati rispettivamente a Columbia e alla University of Pennsylvania. Ma la storia più nota è quella di JD Vance. In “Hillbilly Elegy”, titolo poco fedelmente tradotto in Elegia Americana, il Vicepresidente degli Stati Uniti dichiara apertamente: "Yale gave me an opportunity to change my life." Al campus di New Haven questo figlio di una famiglia suburbana del Kentucky poté accedere non certo per un curriculum brillante che peraltro non aveva, ma grazie al sistema di sostegno finanziario che oggi la sua stessa amministrazione vuole smontare. Perché Vance, Musk e lo stesso Trump, anche lui alunno di Penn, sono così aggressivi nell’ attaccare le loro stesse Alma Mater? La risposta è semplice. Harvard, Penn, Yale e compagnia offrono opportunità di accesso diffuse, ma non per questo cessano di sottolineare le divisioni della società americana e la distanza sociale intercorrente fra la leadership intellettuale del paese e le comunità della classe media cui si rivolge la narrativa MAGA. Sono di conseguenza un bersaglio naturale per quei repubblicani più vicini al suprematismo che oggi attaccano l’ideologia liberale nella cultura.
Il tempo delle rappresaglie
Al pari di Jerome Powell della Federal Reserve, anche Alan Garber è un cattivo esempio per il Paese. Se il primo tira la volata a chi dubita degli effetti sull’economia della politica dei dazi, il secondo disobbedisce apertamente all’amministrazione federale in nome della libertà accademica. Gli effetti non tardano a manifestarsi. In pochi giorni, i presidenti di cento università americane firmano una lettera di solidarietà a Garber. Nel frattempo, ecco arrivare il rapido dietro front di Columbia, che già si era arresa, seguito dal forte sostegno espresso da Princeton, Cornell, Penn, Yale, Stanford, Johns Hopkins e altre ancora, pronte a seguire una strategia comune. A Washington si cerca una risposta in linea con le direttive presidenziali. Si inizia con il taglio di 2.2 miliardi di dollari in federal funding, una ferita che già sta portando dolorosi tagli nel sostegno finanziario agli studenti e provocando il termine di importanti programmi di ricerca. Ben diverse le prospettive di lungo termine, dove Harvard può contare su un ricco fondo di dotazione, che oggi arriva alla somma di 53 miliardi di dollari. È pure gestito bene, nel 2024 ha generato un ritorno del 9.6%, consentendo il pagamento di un contributo al bilancio dell’università capace, assieme alle tuition e alle donazioni filantropiche, di coprire larga parte dei 6.4 miliardi di costi operativi. “Se Harvard ha i soldi, allora tassiamoli togliendo l’esenzione fiscale di cui gode!” Una minaccia grave, ma difficile da attuare: la Legge in materia è di competenza di Capitol Hill e non può essere modificata per Decreto presidenziale. E allora si giunge all’estremo, la minaccia di isolare l’università dal mondo negando agli studenti stranieri il permesso di studio che, notano a Washington, è una concessione e non un diritto. Una bella prova di forza, ma funzionerà?
La parola alla difesa
Harvard è famosa nel mondo per tre motivi: il diritto, la strategia e il network. Sono questi i punti su cui concentrare la difesa dei valori dell’università.
E allora ecco che le migliori menti legali d’America si impegnano nel dimostrare che ogni addebito è improprio, di qui un’azione legale contro numerosi Dipartimenti federali che, dice la stampa, ha buone probabilità di successo. Harvard non favorisce l’antisemitismo, ma pratica la libertà di parola. Poi viene la narrazione. Il corpo docente non è estremista, ma aperto al cambiamento. Agli studenti non è possibile addebitare atti di intolleranza. La diversità è un valore e non una colpa. Venendo poi al network, un rapido conto indica che quattro membri della Corte suprema su nove sono alunni di Harvard, incluso il presidente John G. Roberts. Lo stesso discorso vale per il Senato degli Stati Uniti, dove sei senatori su cinquantatré esponenti repubblicani si sono laureati ad Harvard. Definite pure questo legame “Cambridge crowd”, ma le ritorsioni dell’amministrazione contro Harvard dovranno passare per il Senato, dove la maggioranza repubblicana traballa, oltre che per i tribunali. Quelli dello Stato del Massachusetts certo non fanno il tifo per Trump, mentre le critiche alla deportazione forzata che serpeggiano all’interno della Corte suprema nulla di buono lasciano presagire per altre iniziative “manu militari”. E allora ecco la strategia, prendere tempo. Harvard è stata fondata con fondi privati nel 1636 e ha i mezzi per resistere altri quattrocento anni. Trump detterà legge fino al 2028, sempre che le elezioni mid-term non consegnino la Camera bassa ai democratici. Ma il problema è diverso, non si gioca nelle aule dei tribunali, riguarda invece il futuro della cultura e della ricerca. In verità anche dell’etica, dal momento che viene messo in discussione l’accesso allo studio sulla base del colore del passaporto quando non della religione. Nessuna sorpresa desta, dunque, il rafforzarsi del movimento di opinione che sostiene questo professore fino a ieri sconosciuto di nome Alan Garber e, con lui, la sua azione affermativa dell’indipendenza accademica. Vecchio Alan, hai proprio ragione, i valori che rappresenti non sono i vendita.