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Fabiano Meroni: “La fragilità dell’anziano, oggi preoccupa più della morte”

Lo sapevate che i nati nel 2017, secondo i calcoli dell’Ufficio federale di statistica, vivranno in media fino: a 91 anni gli uomini e a 94 le donne? Proprio così. La speranza di vita si è dilatata grazie a mortalità infantile e malattie infettive che si sono ridotte. Poi, negli ultimi anni, a concorrere nel migliorare la situazione si è aggiunto il calo delle morti per malattie cardiovascolari in età avanzata. Risultato: si vive più a lungo, ma… non necessariamente meglio. Il morbo di Alzheimer, il tipo più comune di demenza, è ciò che intimorisce maggiormente coloro che hanno raggiunto e superato i 55 anni così da diventare quasi un basso continuo dell’ultima parte del viaggio terreno di ciascun individuo. Un viaggio che, sempre più persone, vorrebbero poter condurre, in prima persona, fino alla fine (a testimoniarlo il crescente ricorso ai servizi di organizzazioni quali Exit e Dignitas).
Fabiano Meroni è medico specialista in medicina interna generale e geriatria. Dal maggio del 2020 è viceprimario del Servizio di geriatria del Sottoceneri dell’EOC (Ente ospedaliero cantonale). È bello parlare con lui, ma… il tempo a sua disposizione è poco. Entriamo perciò subito in materia. Obiettivo: capire se è possibile arrivare ad essere padroni del proprio destino anche quando non si è più in grado di controllare memoria, pensiero e comportamento.

Fissiamo un punto di partenza comune: chi è l’anziano e chi è il vecchio?

“L’anziano – e dai 65 in poi tutti lo siamo – è l’individuo che si trova confrontato con la senescenza delle cellule che smettono di replicarsi e che, così facendo, favoriscono un lento, ma progressivo decadimento che indebolisce l’organismo e rallenta le funzioni fisiologiche. In breve: l’invecchiamento. Il vecchio è un anziano che subisce un cattivo invecchiamento. L’anziano invecchia bene perché accetta i limiti dell’invecchiamento, accetta i processi cognitivi ridotti”.

Esemplificando?

“Vede, sia un anziano sia un vecchio, mi guardano straniti dopo che, avendo affermato di star bene dico loro: ‘Bene, allora mi raggiunga al terzo piano salendo le scale di corsa’.  Ad andar bene mi dicono: dottore, ma è matto? Diversa la reazione quando propongo loro di risolvere un cruciverba di media difficoltà in 10 minuti. Né l’anziano né il vecchio oppongono resistenza. Ritengono la sfida alla loro portata. Novanta volte su cento, però, il compito non viene assolto. La frustrazione si fa largo. Tutte le definizioni erano note, il problema stava nel recuperarle in tempi brevi. È un dato di fatto difficile da accettare, ma anche il cervello invecchia e i processi cognitivi e reattivi rallentano. Se a ciò si aggiunge il fatto che un tempo se eri al telefono stavi seduto di fianco all’apparecchio e, magari, prendevi appunti, mentre adesso con i cellulari e il vivavoce ascolti, parli, hai la televisione o la radio accese, stai preparando il pranzo o stai lavorando al computer, ecco che la sensazione di caos è completa. L’anziano, normalmente, ascolta e accetta la sua nuova situazione. Il vecchio, magari già con patologie croniche, rifiuta la senescenza e ciò concorre ad accelerare il processo degenerativo che lo porta in breve a necessitare dell’aiuto di terzi”.

Nessuno però sa se vivrà gli ultimi anni da anziano o da vecchio. Dottor Meroni, non potrebbe essere una soluzione l’obbligo di consegnare, entro i 30 anni, le proprie dichiarazioni anticipate di trattamento*?

“No, non penso sia una soluzione. Vede, a 30 anni abbiamo paura di situazioni che, raggiunti i 60-70 anni, ci fanno se non sorridere, cessano almeno di farci paura. Motivo? Abbiamo imparato a conviverci. Penso che le soluzioni debbano essere trovate ad personam. Ognuno ha una sua storia personale con la quale famigliari e medico/medici devono fare i conti ed interagire. L’importante è focalizzare gli interventi sulla qualità di vita del paziente. Sono però consapevole delle difficoltà legate a questo modo di procedere perché invecchiare presuppone anche dover convivere con decisioni che non combaciano con i desideri della persona oggetto/soggetto dell’intervento. Tutti, indistintamente, vorrebbero mantenere la propria autonomia, ma spesso, per fare ciò, si deve giungere al compromesso. Vuoi restare a casa tua? Allora devi accettare – e sto esemplificando – che ci sia qualcuno che si prenda cura di te al tuo domicilio. O, ancora, devi cominciare a sistemare casa tua in un modo che ti consenta di viverci anche da… vecchio. Passi tutt’altro che facili da compiere, ma dobbiamo tutti prendere atto che la senescenza porta a una perdita progressiva dell’autonomia, sia fisica, sia mentale. Porta alla fragilità”.

Dottor Meroni, un anziano, un vecchio, oggi ha più paura della morte o della fragilità?

“C’è più paura della fragilità che della morte. L’anziano sa che prima o poi la morte arriverà. Più difficile accettare che arrivi senza la possibilità di vivere consapevolmente e bene fino a quel momento. Una mia paziente, malata di cancro, un giorno mi ha detto: ‘Dottore, mi faccia vivere altri tre mesi che voglio esserci al matrimonio di mia nipote. Poi… me ne frego’. Anche i malati di Alzheimer vogliono mantenere la loro qualità di vita, ma… con l’Alzheimer la possibilità d’intervento è ridotta rispetto al cancro. Il cancro, nel rapporto medico/paziente, è più semplice da trattare che l’Alzheimer”.

Il motivo va ricercato nel fatto che il “paziente” ha difficoltà cognitive?

“No. Va ricercato nel fatto che l’Alzheimer è una malattia che non possiamo curare perché ha un decorso che non siamo in grado di arrestare. Noi geriatri possiamo diagnosticare, affiancare, aiutare, ma non fermare il processo degenerativo. Questa, per il momento, è la situazione. Possiamo, in definitiva, trovare il miglior compromesso possibile per garantire una buona qualità di vita, ma poco o niente di più”. 

I famigliari, in questo percorso, sono un aiuto o un ostacolo?

“Guardi, i famigliari diventano degli ostacoli quando non sono stati messi sufficientemente in grado di comprendere – e quindi condividere – le decisioni. Una diagnosi tempestiva può aiutare a mantenere una buona qualità di vita sia per il paziente, sia per i famigliari. Il tutto si basa su un rapporto di chiarezza, ma anche di conoscenza del vissuto e delle dinamiche interpersonali di chi ti sta di fronte. Il fatto che una persona sia madre e l’altra figlia, non significa ancora che abbiano valori e visioni convergenti sulla vita e il modo di affrontarla. Una comunicazione che tenga conto dei rispettivi approcci al tema del fine vita è, a mio parere, indispensabile. Poi, inutile girarci intorno, una diagnosi tempestiva della malattia è indispensabile”.

Scusi dottor Meroni, ma come si fa a dire a qualcuno: lei ha l’Alzheimer?

“Non è semplice, ma va fatto. Nei paesi latini è più difficile visto che se ne parla poco o, addirittura, non se ne parla. Negli Stati Uniti, invece, la diagnosi è spiattellata immediatamente (non è estraneo alla procedura il problema della copertura dei costi). Tornando a noi: un recente studio ha interpellato i medici sulla questione. La domanda: direste, alla prima visita, che c’è il sospetto di Alzheimer? Il 50% degli interpellati ha risposto “no”. A quello stesso 50% è stato chiesto se loro avrebbero voluto saperlo. La risposta di tutti è stata “sì”. Non faccia quella faccia. Provi a pensare anche alla difficoltà che provoca nel medico il comunicare una cattiva notizia, una notizia che provoca sofferenza nella persona che ti sta di fronte e che il medico dovrà accompagnare per anni in un cammino sempre più difficile”.

Colpita e… quasi affondata. Ma posso chiederle quando e come faccio a sapere se sono entrata nella zona Cesarini dell’Alzheimer?

“Penso che la cosa migliore da fare, in presenza dei primi disturbi di memoria, sia interpellare subito il proprio medico di famiglia. Sarà lui a stabilire, sulla base di una visita preliminare e di test ad hoc, se ricorrere allo specialista, al geriatra. Quello che però posso dirle è che nella maggior parte dei casi la diagnosi avviene non per una presa di coscienza del paziente, ma perché i famigliari si accorgono che c’è qualcosa che non funziona più. La maggior parte dei pazienti colpiti da Alzheimer manifesta infatti incapacità di riconoscere e riferire propri deficit neurologici o neuropsicologici. Il termine tecnico è agnosognosia che significa che il paziente non è consapevole della sua malattia e si dice assolutamente padrone di quelle capacità – soprattutto cognitive – che invece ha già parzialmente perduto”.

A questo punto qual è la difficoltà maggiore?

“Far capire – ed accettare – a pazienti e famigliari che gli interventi sono volti a mantenere il più a lungo lo ‘statu quo nunc’ del momento della visita/diagnosi piuttosto che raggiungere una guarigione che, come le dicevo prima, sulla base dei progressi scientifici – comunque intervenuti – è per il momento impossibile”.

Dottor Meroni, ha senso mantenere in vita artificialmente un malato di Alzheimer all’ultimo stadio?

“Le risponderò con una situazione accadutami di recente. Un paziente affetto da Alzheimer, nel generale processo di senescenza aveva sviluppato una degenerazione irreversibile della deglutizione. Non riusciva più a nutrirsi. I famigliari mi chiesero di procedere con la gastrostomia endoscopica percutanea (PEG), ovvero mettere un tubicino di 5 – 7 mm che permette di collegare la cavità gastrica con l'esterno, così da non lasciare che il loro caro morisse di fame. Ci siamo incontrati. Abbiamo parlato. Ho spiegato loro la situazione ed hanno capito. Il loro caro non sarebbe morto di fame perché non mangiava. Non mangiava perché stava morendo”.

*La dichiarazione anticipata di trattamento: tutto quel che c’è da sapere https://www.ch.ch/it/salute/direttive-del-paziente/