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“Più di metà del dolore del mondo è oggi di origine psichiatrica”

Mini incursione nel mondo della follia con il dottor Paolo Milone, autore di “L’arte di legare le persone” e “Astenersi principianti”

Sarà capitato a molti di terminare di leggere un libro desiderando di poter trascorrere col suo autore almeno un frammento di tempo nel quale sottoporgli tutte le domande che le sue parole, quasi fossero un legnetto usato per grattare sul fondo di uno stagno, hanno smosso portandole in superficie. Mi è successo con “L’arte di legare le persone”, uscito nel novembre del 2021 e letto nel 2023 quando si era già alla terza edizione. L’idea di incontrare il dottor Paolo Milone è diventata, da allora, un basso continuo acuita dall’uscita del suo secondo libro – sempre per Einaudi – “Astenersi principianti”. Lui, classe 1954, laureato in medicina nel 1979, specializzato in psichiatria dal 1983, ha lavorato in un Centro di Salute Mentale e poi in un reparto ospedaliero di Psichiatria d'urgenza. Quasi quarant’anni a contatto diretto con la follia. Chissà, forse anche per questo, in un giorno di marzo – il 13 -, accetta di essere intervistato per Lib-. Due giorni dopo, sempre lui, cultore della parola, dotato di un sorriso splendido, di simpatia ed empatia, era a Lugano, ospite della Casa della letteratura con Marco Steiner. 

Dottor Milone, cos’è per lei la follia? Un fiore che - come suggerisce Antonio Lobo Antunes (un altro psichiatra/scrittore) - se presentato diritto esprime un pensiero, ma che rovesciato significa il contrario o la follia è altro?

“Senza dubbio per me è altro. La metafora del fiore è bella, ma per me la follia è più simile a una bambolina piccola dentro una matrioska. Perché la follia è un modo di pensare e di vivere le emozioni, un modo primitivo che poi viene ricoperto da modi più evoluti e efficaci, ma resta dentro di noi e là noi possiamo temporaneamente regredire per malattia o in particolari situazioni di stress. La follia è un disturbo che genera sofferenza, è disfunzionale e abbassa la qualità della vita - in chi ne patisce e nei suoi familiari - e per questo va curata.”

Si dice però che arte ed artisti siano percorsi da una vena di follia…

“La follia quando si manifesta come molto lieve disturbo mentale può essere anche bella, artistica, creativa perché è in grado di produrre movimento, variazione, novità. Una lieve melanconia può ispirare un poeta o un pittore, ma se peggiora e diventa depressione viene bloccata qualsiasi produzione artistica, non si riesce neppure ad alzarsi dal letto. Similmente un lieve innalzamento dell’umore, una ipomania, può stimolare la produzione artistica, seppure risulti stereotipata e ripetitiva, ma in una vera maniacalità c’è troppo eccitamento, caos, confusione, perché si crei arte. Per l’arte sono necessari non solo l’inventiva, ma anche l’equilibrio, la misura, il metodo, la conoscenza dell’uomo e la sapienza tecnica e altro ancora. Dunque no, i pazzi non sono artisti. Essere malati non è mai bello, al contrario è spesso molto doloroso: un dolore sordo, cieco, inutile, che non produce arte. Io penso che più di metà del dolore del mondo sia oggi di origine psichiatrica”.

Affermazione piuttosto forte che si fonda su…?

“… sul fatto, per esempio, che la depressione è molto diffusa ed è caratterizzata dall’essere puro dolore. Una depressione che dura due o tre mesi è puro dolore continuativo per due o tre mesi.  Ma il dolore mentale ha svariate forme, anche il maniacale - il contrario della depressione - nonostante sembri felice, paga un alto prezzo perché è doloroso essere costretti a vivere sempre e solo la stessa unica emozione di pseudo-felicità: si vede subito che dietro la felicità c’è lo stesso dolore della depressione. Così come soffrono, e in modo diverso, i paranoici che temono che ci sia sempre qualcuno che li pedina, li spia e li condiziona. O i gravi ossessivi costretti a trascorrere la giornata a ripetere gli stessi movimenti e gli stessi pensieri mille volte. O, ancora, i caratteriali che non controllano gli impulsi aggressivi: non è piacevole vivere nella continua tensione di perdere il controllo degli impulsi. E così via, gli esempi sono innumerevoli.

Ma la depressione è forse il caso più tipico. Pensi che ascoltando un vicino parente entrato in depressione, persona che io conoscevo bene e frequentavo, mi ha convinto che il suo lavoro era fallito, la sua famiglia distrutta, il suo corpo malatissimo ed io, che sono psichiatra, sono arrivato a pensare: se capitasse a me di trovarmi nella sua situazione, io mi ucciderei ed infatti lui non pensava ad altro”.

E come si sentiva questa persona?

“Sprofondata in un mondo distrutto senza via di uscita. Ebbene, nulla di quello in cui lui credeva e che mi raccontava era vero: la sua ditta andava a gonfie vele, la famiglia era solida e affettuosa, fisicamente stava benissimo. Erano tutte sue idee depressive. La depressione ti porta ad isolarti dal mondo, a non curarti più, a non badare a te stesso per cui, quando si è depressi, si muore non solo di suicidio, ma anche di appendicite o di qualsiasi altra malattia anche curabile. La depressione è qualcosa che ti uccide dentro e, a volte, la morte fisica è solo la logica conseguenza di una morte interna che ha già avuto luogo”.

L’Alzheimer rientra in questo genere di processo?

“L’Alzheimer non è conseguenza di una malattia mentale, ma di un processo degenerativo delle cellule. È una forma di demenza che si manifesta con una perdita di memoria progressiva e di altre abilità intellettuali, ma, a differenza di quanto accade per le malattie mentali propriamente dette, per l’Alzheimer le cure sono, per il momento, ancora non soddisfacenti.  Le demenze, stante il prolungarsi della vita media, sono destinate ad aumentare. In parte sono delle vere malattie che si spera saranno curabili, in parte sono l’invitabile espressione dell’invecchiamento patito dal cervello. La demenza, in fase iniziale, ha analogie con la depressione, soprattutto per quel che concerne la percezione di un sé diverso da ciò che si è sempre stati e questo ci fa soffrire. Poi subentra il distacco emotivo. Ci si dimentica di sé e solo quando si riemerge dall’oblio indotto dalla demenza, si soffre, ma ogni giorno si soffre un po’ meno: la natura fa sì che la stessa demenza, che è alla base del male, progredendo, porti la persona a soffrire di meno”.

Legare le persone (al letto) è una cura?

“L’arte di legare le persone – al letto, a te, alla realtà, a sé stesse – è un’arte. Inconoscibile. Legare le persone a sé stesse e agli altri è un concetto molto bello. Talvolta, purtroppo, è necessario anche fermare le persone con un trattamento sanitario obbligatorio, e per ricomporle, talvolta è anche necessario legarle al letto. Talvolta questo intervento, che pare così orribile, è salvavita. In medicina e in psichiatria bisogna essere paratici e non ideologici. Se qualcosa serve bisogna farlo. Mi ha molto colpito il racconto di Emmanuel Carrère che nel suo libro del 2021 – ‘Yoga’ – racconta di sé e del suo bipolarismo resistente ai farmaci che è stato curato con gli elettroshock. Lui che voleva assolutamente morire, interpellato dai medici del Sainte Anne di Parigi, dove era ricoverato, accetta di sottoporsi all’elettroshock pur di uscire dallo stato di sofferenza profonda che lo sta lacerando e divorando. Una cura, quella dell’elettroshock (che ora si chiama TEC, Terapia elettroconvulsionante), a più riprese messa in discussione, ma che con lui ha funzionato”.

Va bene dottor Milone, ma se uno – depresso o no – non ha più un valido motivo per vivere, perché anziché curarlo non lo si aiuta ad andarsene senza soffrire? Carrère aveva chiesto anche l’eutanasia…

“Aveva chiesto l’eutanasia, ma ha accettato di sottoporsi ad elettroshock: finché c’è una possibilità di cura, bisogna tentarla.  Una persona mantiene la libertà di ammazzarsi, ma ha anche la spinta a vivere. Faccio notare che un depresso difficilmente si suicida quando è malato perché è abulico, apatico, desidera farla finita, ma non riesce ad attuare la cosa: sta magari giorni e settimane davanti alla finestra dalla quale si vuole buttare, ma non lo fa. Poi guarisce. Lascia l’ospedale e a volte capita che qualcuno, qualche tempo dopo, venga a dirti che si è buttato e che se n’è andato per sempre. Noi psichiatri abbiamo il dovere deontologico di stare dalla parte della vita. È il nostro modo di essere medici”.

Lei, personalmente, che rapporto ha con la morte?

“Vita e morte sono un concetto unico. Nascendo inizia il nostro percorso verso la morte e, in definitiva, si muore vivendo. Si spegne la luce quando il trasloco è già avvenuto. Questa è la premessa, ma per me la morte è e resta inaccettabile. È una cosa mostruosa. Ho girato intorno al tema della morte per una vita e non sono riuscito a farmene una ragione. Il mio secondo libro – che avevo nel cassetto da tempo – è proprio sulla morte, ma… nemmeno scrivendolo ho messo pace tra me e lei: nemici sempre”.

Mi sta dicendo che, a differenza di quanto accaduto con “L’arte di legare le persone”, la parola scritta non è stata supporto sufficiente per mettere ordine nel tema morte?

“In definitiva è così. Sto pensando, in questo momento, ad uno dei miei pazienti che uccise la moglie per amore. La uccise perché pensava avesse un tumore – che in realtà non aveva -, ma lui ne era convinto e uccidendola pensò di toglierla dal dolore che quel tumore (inesistente), le avrebbe inflitto fino alla morte. Ma quando un paziente ha un delirio depressivo così grave, le parole non servono, servono i farmaci.

Nei territori della psicosi e della morte le parole servono a poco, perché questi sono mondi senza parole dove la parola è inesprimibile e incomprendibile.  Sono mondi muti. L’uso della parola – orale o scritta – è quasi impossibile. Solo la parola poetica, la parola evocativa, può aiutare ancora un poco a colonizzare l’inconoscibile. In altri termini: i margini della psicosi possono essere illuminati un poco dalla poesia, proprio come accade alla “Ginestra” del Leopardi che colonizza e rende fertile, ma dopo tanto tempo, la lava”.

Capisco. Io, ad esempio, ho impiegato molto tempo per capire perché mi piace il mare. Poi leggendo il versetto 26 del capitolo “Cattive compagnie” del suo libro, ci sono arrivata. Resta però il problema che, a differenza sua, io non vivo davanti al mare…

“Provi con il lago. A mio parere funziona ugualmente. Anche lì gli scocciatori ci sono solo per centottanta gradi. Il resto è acqua”