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L’ambasciatrice Schmutz Kirgöz: «Promuovo, con il mio lavoro, il prodotto più bello del mondo: la Confederazione elvetica»

È un mattino dell’autunno 2011. Siamo a Istanbul, fra i grattacieli del quartiere di Levent. Mentre scendo dal taxi in leggero anticipo, ripasso il programma del breakfast di lavoro che mi attende. Mi accingo ad incontrare Monika Schmutz Kirgöz, Console generale della Confederazione, fresca di nomina, proveniente da Tel-Aviv. “La sua reputazione la precede”, così leggo nella nota redatta dalla direttrice del mio ufficio in loco. “Brillante, severa, competente; non nasconde le proprie opinioni, si interessa a quelle dell’interlocutore”. “Vediamo”, penso, potrebbe essere una colazione interessante.

Ed è così che da un contatto di lavoro nasce un’amicizia. Ci incontreremo spesso in Ticino, assieme al marito, un valente economista turco, ai due figli, che oggi vivono a Ginevra, a mia moglie Cristina. Monika non è solo una donna pubblica, altamente visibile, sempre ricercata dalle testate giornalistiche come da quelle televisive. A conoscerla meglio, è una persona come noi, cui piace leggere, viaggiare, cenare sul lago, discutere di politica e di società, con amici provenienti da ogni parte del mondo. Ed è come amici che, nel tempo, abbiamo seguito Monika nelle sue avventure, nelle sue difficoltà, nei suoi successi. Abbiamo sofferto nell’incertezza successiva alle esplosioni di Beirut, nell’attesa di notizie sulla sua salute. Abbiamo accolto con piacere l’annuncio del suo prestigioso, ma certo non facile, incarico a Roma. Monika è spesso presente in Ticino, dove ha casa. A Lugano, ricordo la serata in cui la intervistai al Club dei Mille, non ho dimenticato le sue parole alla presentazione del Film festival dei diritti umani. Una donna sempre in azione, insomma. Oggi, la incontro alla stazione ferroviaria per intervistarla su LIB-, nella speranza di scoprirne, assieme al lettore, alcuni aspetti meno noti.

Monika, la tua è una carriera di successo all’interno dell’amministrazione federale. Cosa significa lavorare per il proprio Paese? Quali ideali e quali obiettivi ti animano?

Di professione, vendo il prodotto più bello del mondo, la Confederazione elvetica, i suoi valori, la sua democrazia. La Svizzera mi ha dato molto, ad iniziare dalla possibilità di scegliere il percorso di studi e successivamente il lavoro a me più congeniale. Viviamo in un sistema meritocratico, con scuole e università pubbliche d’eccellenza: questo offre opportunità di riuscire a tutti coloro che lavorano duro, indipendentemente dal censo o dall’origine. Lo ha fatto anche nel caso della giovane Monika, figlia di una donna che oggi sarebbe chiamata una persona con “Migrationshintergrund”. Sono grata al mio Paese. Servire nell’amministrazione federale al meglio delle mie capacità è il mio modo di ringraziarlo. Nel loro profondo, i miei obiettivi all’interno del Dipartimento restano quelli che mi animavano in passato, evolvono però con il trascorrere del tempo. Dopo ventisette anni di carriera diplomatica, ad esempio, oggi mi propongo di combattere gli stereotipi del passato, a cui il mondo troppo spesso ci associa, di rappresentare il presente, quando possibile il futuro. È ora di lasciare la visione di una Svizzera ridotta ai soli confini di piazza finanziaria, cioccolato e orologi, senza nulla togliere al rispetto dovuto a tutte queste attività. Mi propongo di spiegare, condividere il nostro modello, unico al mondo, di paese innovativo, competitivo, dove l’iniziativa di ognuno di noi è apprezzata e incentivata, se pur nel rispetto di regole di etica e sostenibilità ben definite.

Corpo diplomatico significa anche sacrificio. Lo stress di gestire eventi improvvisi, i periodici cambiamenti di sede, le difficoltà di dare stabilità alla propria vita familiare. Come affronti queste sfide?

Mi fa piacere ci si renda conto che la vita del diplomatico non sia fatta di ville con piscina e champagne. La quotidianità non sempre è facile per le nostre famiglie, per i nostri bambini che ogni quattro anni devono cambiare paese, cultura, confrontarsi con contesti sociali e religiosi diversi dal nostro. Lo stesso vale per i nostri coniugi, pensate che in passato alle donne che entravano in diplomazia era vietato sposarsi. I miei figli sono cresciuti in situazioni complesse, in città per certi versi pericolose. Tel-Aviv lo può diventare nei momenti di tensione; Istanbul pone la costante pressione delle città con venti milioni di abitanti; cosa succede a Beirut lo potete bene immaginare. La ricetta che ci consente di superare queste difficoltà? Essere mossi da curiosità intellettuale e di conseguenza amare i cambiamenti radicali. È il caso mio e della mia famiglia. Personalmente, affronto le sfide della diversità perché mi danno spinta emotiva.

Sacrificio sì, ma anche soddisfazione, successo, autostima. Cosa ti gratifica maggiormente nel tuo lavoro?

Il contatto umano è l’aspetto che in maggior misura mi arricchisce. Poter incontrare persone, parti sociali, minoranze rappresentative di un intero paese è un’opportunità che la diplomazia sa offrire a chi l’apprezza. Vi farò un esempio: per conoscere la Turchia, dove parlo bene la lingua nazionale, ho ascoltato non solo i ministri e gli esponenti della grande finanza, ma anche le popolazioni anatoliche, i minatori, i Curdi. Una seconda fonte di gratificazione è insita nel riuscire a risolvere dei problemi pratici. Ricordo che, nell’ormai famoso porto di Beirut, spesso le navi non potevano scaricare prima di aver pagato somme non dovute. La imprese svizzere, ne sono orgogliosa, non cedevano ai ricatti. Il compito dell’ambasciatrice diventava porre pressione sul competente ministero per sbloccare la situazione, il che regolarmente accadeva.

Fra le soddisfazioni, sicuramente rientra il rappresentare la cultura svizzera nel mondo. Lo scorso 2 febbraio hai partecipato alla presentazione a Roma del romanzo In Svizzera. Sulle tracce di Helvetia”. Che opinione ne hai tratto?

Il libro di Lorenzo Sganzini non solo mi piace, addirittura mi è utile nel mio lavoro quotidiano. Pensate: una lettrice basilese che fa i complimenti ad uno scrittore ticinese per il suo modo di spiegare la Svizzera! Questo indica un libro di successo, che consiglio a tutti di leggere. È divertente nello stile, rivelatore negli aneddoti con cui si illustra la nostra identità, la nostra volontà di essere svizzeri. Domande cui devo spesso rispondere in prima persona, per condividere i valori che rappresento.

Sei stata in prima linea. Ora reggi una delle principali sedi diplomatiche della Confederazione. La vera diplomazia dove si fa, al fronte o nelle grandi capitali?

La diplomazia si fa a Berna come nelle ambasciate, piccole o grandi che siano. Si fa anche fuori, sul territorio, fra la gente. Certo, le modalità possono differire, almeno in parte. Oggi, a Roma, il contatto con il mio Dipartimento, così come con tutti gli altri, è frequente: ogni azione di rilievo è concordata e coordinata. Tutti i giorni mi confronto su temi bilaterali, accolgo delegazioni, organizzo conferenze sull’intero territorio italiano. In contesti più lontani, ad esempio in Libano, dove il punto principale non è costituito dai rapporti con l’Unione europea e le sue nazioni, ma dall’ aiuto umanitario, l’ambasciatore ha un margine di manovra maggiore, può sviluppare temi autonomi, benché in linea con le nostre politiche. Pur con alcuni distinguo, la vera diplomazia nasce da un’azione coordinata, basata sui nostri valori, che non conosce il confine fra grandi capitali e sedi “al fronte”, come descritte nella domanda.

Una domanda sulla neutralità è d’obbligo. Un concetto molto radicato in Svizzera, meno all’estero. Con che parole la illustri a chi è cresciuto in una cultura diversa dalla nostra?

Da quando sono a Roma, rispondere a questa domanda mi occupa molto. La neutralità è un valore profondamente radicato nella tradizione di noi svizzeri, difficile da comprendere per chi non lo abbia conosciuto fin dalla nascita. Il tema è stato chiaro fino a quando si trattava di condividere le sanzioni dell’Unione europea, scelta supportata dal diritto della neutralità, visto che siamo di fronte ad una aggressione militare. Si complica oggi con l’apertura del dibattito sulla riesportazione di armi verso parti in conflitto.

Sei una lettrice di LIB-. Hai un messaggio per il nostro giornale?

In primo luogo, leggo LIB- con interesse, sono grata alla redazione che me ne fa avere una copia in ambasciata. Un giornale così denso di contenuti, ritengo, andrebbe portato a conoscenza di un pubblico più ampio possibile, raggiungendo le persone caratterizzate da curiosità e apertura mentale anche al di fuori del vostro partito. Forse dovreste riflettere sulla distribuzione.


Foto DFAE