Fine Ottocento. La seconda rivoluzione industriale è partita da poco (1870), ma il lavoro di semina e raccolto nei campi è quello di sempre e, soprattutto nelle risaie, sono le donne ad essere impiegate da mattino a sera per pochi spiccioli. Sono proprio le donne a dare il “la” ad una rivoluzione che unirà lavoratrici e lavoratori in una lega che condivide aspettative e rivendica giustizia. “Sebben che siamo donne” diventa una canzone che si trasforma in inno. “Sebben che siamo donne” è il titolo di questa rubrica che, mese dopo mese, vuol farvi conoscere donne speciali. La prima, a settembre, è stata Carla Del Ponte; a ottobre è stata la volta di Laura Silvia Battaglia; poi, a novembre, si è raccontata Federica De Rossa; a dicembre c’è stata Valeria Doratiotto Prinsi; a gennaio Roberta Cattaneo; a febbraio Sandra Manca; a marzo Monica Duca Widmer; ad aprile Franca Verda Hunziker; a maggio Rosanna Michelotti; a giugno Gabriella “Gaby” Malacrida ; luglio e agosto hanno visto protagonista Morena Ferrari-Gamba e oggi, a raccontare qualcosa di sé, c’è…
ELVIRA DONES: “La vita? La persona più strana che abbia conosciuto”
Che persona è una scrittrice della quale hai letteralmente divorato e, come anticipato nei “Consigli d’autore” del numero 11 di Lib-”, profondamente amato, uno dei libri che ha scritto (più precisamente “La breve vita di Lukas Santana”, ed. La Nave di Teseo)? Se la scrittrice abita in Ticino e la domanda è di quelle che ti tormentano la contatti e, con il cappellino dell’umiltà e la sfacciataggine degli anni che passano, le chiedi: “Scusi, sarebbe disposta a incontrarmi?”. Se, come accaduto, ti dice “Sì, vediamoci” ecco che ti si spalanca un mondo: di libri, certo, ma soprattutto di vite che s’intrecciano complici quelli che alcuni chiamano “i casi della vita”. Elvira, lo diciamo subito, ha 63 anni, due figli e in Ticino ci arriva nel 1988. La sua città natale è Durazzo, in Albania, ma infanzia e adolescenza le vive a Tirana. La sua è una famiglia dell’élite della dittatura comunista, fatto questo che le permette di godere di alcuni privilegi. È lì, nella capitale, che si laurea in letteratura inglese e albanese. È lì che impara a detestare, cordialmente, i sistemi chiusi e il pensiero unico. Elvira – o Elviretta, come la chiamerà suo suocero intuendo la fragilità che si nasconde dietro questa donna tutta d’un pezzo – è una di quelle persone capace di ascoltare e di spiazzare con una risposta. Inizia a lavorare in televisione a 13 anni. A 16 è già una star. A 20, al primo anno di università, si trova a doversi pensare anche come sposa e madre.
Una scelta pensata o obbligata?
“Guardi, non sono in grado di rispondere a questo aut aut. Le racconterò un episodio. Ero al quarto mese di gravidanza e la pancia iniziava a vedersi. Il professore di storia dell'Inghilterra (si figuri, si chiamava Hamlet - e non scherzo -), vedendo la mia pancia, mi disse: “Possibile che tra tutti queste zucche vuote proprio tu debba essere rimasta incinta? Ragazza, io sto male per te. Tu eri la brillante e in questi mesi sono venuto a insegnare solo e unicamente per te!”. Ricordo che lo guardai. L'aula era sprofondata nel silenzio più totale perché ad Hamlet Bezhani (questo il suo nome completo) nessuno avrebbe mai osato dire nulla, ma fu nel bel mezzo di quel silenzio assordante che dissi, in inglese, ad Hamlet Bezhani: “Professore, so che non lo potrà capire, ma mio figlio, un giorno, sarà un uomo libero”. La vita mi ha dato ragione. Vent’anni dopo, io ormai famosa e Hamlet in pensione, sono in Albania per un incontro pubblico. La sala è gremita. Lui si mette in fila per farsi firmare uno dei miei libri. Mi guarda e mi chiede: “Sei contenta bambina?”. Io, di rimando, gli rispondo: “Lei professore cosa pensa?”. Mi ha regalato un sorriso talmente struggente che non dimenticherò mai”.
Torniamo a suo figlio, Anthony. È a lui che dedica il primo libro – “Senza bagagli” – che scrive in albanese e che, sebbene la protagonista si chiami Klea, è la sua storia, la storia di Elvira, l’albanese diventata svizzera. Dov’è adesso? Cosa fa?
“Anthony vive in Svizzera e fa il violinista, come suo padre che però, fino alla caduta del comunismo è rimasto in Albania e in seguito è andato a vivere e a lavorare a Madrid. Poi era tornato in Albania dov’è morto pochi mesi fa. Quando ho lasciato il mio paese tra noi era già tutto finito, ma il vero motivo per cui me ne sono andata è perché mi mancava l’aria, mentre recitavo sul palcoscenico pubblico un ruolo assurdo, qualcosa di completamente diverso da ciò che ero nel privato. Era un po’ quello che facevamo tutti in quegli anni solo che, da bambina cresciuta col ritornello “noi siamo i bambini più felici del mondo”. Io mi sono ritrovata giovane donna confrontata con una realtà che cominciavo a decifrare, a capire e tutto mi crollò addosso quando mi confessai che no, non sopportavo più quella dittatura. Sì, ho proprio detto dittatura perché stalinismo e antirevisionismo avevano portato il mio paese ad essere una prigione a cielo aperto. Tutto quello che non era albanese era sospetto: i libri, le cartoline e anche quel quadernetto che mi aveva regalato mio padre e che era diventato il mio diario da dopo che avevo incontrato, in Danimarca, quello che è, da 33 anni, mio marito. Dire e pensare cose diverse da quelle approvate dal regime poteva avere, in quegli anni, conseguenze gravissime. Basti pensare che proprio mio padre mi disse: “Non so se ti è chiaro che così, sul filo del rasoio, non puoi continuare e che la nostra condizione di membri del Partito non è più una garanzia assoluta. Ora non sei più una studentessa. Hai un figlio. Sta crescendo senza un padre visto che vi siete lasciati. Sei sicura di volergli creare anche problemi di biografia?”. No, non volevo creare problemi ad Anthony, ma riuscii ugualmente a rendergli la vita difficile e questo nonostante Hoxha fosse morto e, al suo posto, ci fosse Ramiz Alia, un suo fedelissimo che però non cambiò proprio nulla. La faccio breve: quando da Milano – dove mi trovavo per la televisione albanese – decisi di seguire Vasco, mio marito, in Svizzera, ero sicura che, in un paio di giorni, Anthony mi avrebbe raggiunta. Non è stato così. Ho dovuto aspettare due anni e mezzo per poterlo riabbracciare”.
È il bisogno di raccontare la sua storia che la porta a diventare una scrittrice?
“Sì, penso che in quel momento sia andata così. Mi sono trovata con poco lavoro – a quei tempi ero impiegata come montatrice di servizi tivù alla Vario Film con sede a Cureglia -, Vasco era partito per realizzare un documentario oltre oceano e io mi sono seduta davanti a un computer chiedendomi: e adesso? Cosa faccio? E mi sono messa a scrivere, in albanese, perché quella era la mia lingua. È il 1997. “Dashuri e huaj” è il titolo del libro che esce in Albania poi, nel 1988, viene tradotto e proposto come “Senza bagagli” in Italia ed è un successo. È così che trovo il coraggio di continuare. Voglio raccontare ciò che ho visto, le storie di chi, per sorte o sventura, non potrà mai raccontarle”.
Tipo “Sole bruciato”?
“Vede, “Sole bruciato”, come “Bianco giorno offeso” e “I mari ovunque” sono libri che ho scritto in albanese e poi sono stati tradotti in italiano. Tutti e tre raccontano storie di persone ai margini. Penso che tra tutti “Sole bruciato” sia un libro che purtroppo ancora oggi è di estrema attualità. Parla della tratta di esseri umani, donne che dall’Albania – perché è questa la regione che in quegli anni conoscevo meglio – vengono deportate in Italia con la promessa di un lavoro – cameriera, bambinaia, badante – e poi finiscono sul marciapiede anche se hanno 14, 15 o 16 anni. È stato come aprire il vaso di Pandora. Ricordo che di “Sole bruciato” si parlò in un magazine letterario della SRF dedicato alle novità letterarie (“Sole bruciato” è stato tradotto anche in tedesco: «Verbrannte Sonne») . Rimasi di sale quando mi accorsi che le due ospiti avevano posizioni molto più chiuse rispetto agli altri due ospiti. Una di loro arrivò persino a dire che “queste situazioni non devono essere temi letterari, ma casi giudiziari. Se si è al corrente di fatti simili si sporge denuncia in procura anziché scrivere un libro”. Questo per dire che, per un motivo o per l’altro, se le vite degli altri sono troppo complicate, o troppo diverse dalla nostra, alziamo barriere in difesa del nostro mondo. A volte è capitato anche a me, lo ammetto”.
E il primo libro in italiano qual è stato?
“ ‘Vergine giurata’, nel 2007, per Feltrinelli. Il titolo originale era un nome albanese, Hana, che significa Luna, ma… la casa editrice ha preferito cambiarlo incentrandolo sul ruolo della protagonista, Hana Doda, che essendo donna della regione di montagna dell’Albania deve ricordarsi di essere solo l’ombra del suo uomo del quale è moglie e madre dei suoi figli. Lei però non ci sta. Non accetta il matrimonio combinato e per sottrarsi alla regola ne abbraccia un’altra: fa voto di castità, si taglia i capelli e viene riconosciuta dalla società come uomo. In altri termini, nel suo corpo di donna c’è l’anima di un maschio e lei è, appunto, una vergine giurata. Questo è il libro della mia svolta sia personale sia come autrice. Vinco il premio Grinzane Cavour nel 2008 e nel 2015 la sua trasposizione cinematografica, presentata al Festival di Berlino, ha ottenuto diversi riconoscimenti”.
Questo libro, ma anche “Piccola guerra perfetta”, lei, sebbene lo scriva in italiano lo scrive in America…
“Lo scrivo lì perché lì ci siamo trasferiti, nel 2004, con nostra figlia e lì siamo restati fino al 2015 quando abbiamo lasciato la baia di San Francisco per tornare in Ticino. Sono stati undici anni importantissimi dove ho imparato moltissime cose e dove ho anche conosciuto il ragazzo protagonista del libro che ci ha portate ad incontrarci. Sì perché Lukas Santana l’ho conosciuto per davvero e in carcere, a parlare con lui, ci sono andata non una, ma più volte. Era più bello di un dio greco quel ragazzo che non ha mai svelato a sua madre, né al suo amore, il suo segreto, il più terrificante segreto della sua vita; ciò che lo aveva fatto entrare in una banda. Quando lo hanno ucciso, alle 20.40 ora texana, il 19 settembre del 2013, per la prima volta ho acceso una sigaretta. Dieci anni dopo fumo ancora. Chissà, forse è anche per questo che considero questa cosa che si chiama vita la “persona” più strana che abbia mai conosciuto”.